La traduzione: un tuffo nella cultura

Cosa si cela dietro l’apparentemente semplice atto del tradurre? Non si tratta, ovviamente, della mera trasposizione di un testo da una lingua all’altra, ma di un’attività che esula dalla mera dimensione linguistica per approdare a un universo molto più ampio, nel quale stabilire connessioni non solo tra sistemi di segni, ma anche – ed è questa una condizione necessaria – tra culture.

Alla luce di questa profonda relazione non è possibile parlare di mediazione linguistica senza prevedere l’attività complementare di mediazione culturale. Il termine “mediazione” suggerisce l’idea della traduzione come strumento per favorire l’incontro tra sistemi linguistici e culturali, il che consente in ultima istanza l’incontro tra popoli. Non stupisce, pertanto, che uno dei più famosi episodi di traduzione della storia dell’umanità già presentasse tali caratteristiche. Ci spostiamo al XVI secolo in terra messicana, quando una schiava azteca di nome Malinche, venduta in giovane età alla popolazione Maya, viene a sua volta ceduta agli Spagnoli di Cortés e, appresane rapidamente la lingua, diventa traduttrice ufficiale tra Conquistadores e Conquistados, i quali trovano così nella Malinche lo strumento per abbattere il grande muro che si frapponeva tra di loro, vale a dire l’impossibilità di comunicare.

Come-tradurre-una-canzone-online-e-pubblicarla

Nei secoli a seguire l’ufficio del traduttore si è consolidato sempre più, sino ad arrivare ai giorni nostri, quando la necessità di comunicare in un mondo altamente globalizzato è attestata dal lampante successo riscosso dalle agenzie di traduzione.
Cosa è richiesto, dunque, al moderno traduttore? Chiaro, un’ottima padronanza della lingua di partenza e della lingua meta è un requisito fondamentale, senza il quale è pressoché impossibile cimentarsi in un qualunque incarico traduttivo. Tuttavia, una solida base linguistica, per quanto auspicabile e a dir poco irrinunciabile, non è tutto. Vi sono, infatti, competenze addizionali da tenere in considerazione, le quali distinguono il lavoro ragionato e ponderato di un animale pensante – secondo la definizione aristotelica – dal lavoro povero e freddo di un sistema di traduzione automatica via web. Tenendo ben chiaro il valore di una traduzione “umana” da parte di un professionista del mestiere, occorre poi considerare che ogni ramo del sapere, ogni ambito di specializzazione, richiede ovviamente una soddisfacente preparazione nel campo tematico in questione, sia questo medico, economico, giuridico e via dicendo. Nel post di domani farò alcuni esempi concreti.

Autrice dell’articolo:
Silvia Alabardi
Dott.ssa in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale
Traduttrice ES-EN-FR>IT
Jerago (Varese)

11+2=12+1

Franco Nasi, saggista e traduttore, insegna Letteratura italiana contemporanea e Teoria della traduzione all’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha tradotto poeti contemporanei americani e inglesi fra cui Roger McGough e Billy Collins. Sulla traduzione ha scritto Poetiche in transito(Milano 2004), La malinconia del traduttore (Milano 2008), Specchi comunicanti (Milano 2010). Con Angela Albanese ha curato I dilemmi del traduttore di nonsense (Ravenna 2012).

Franco Nasi

L’equivalenza che si vede nel titolo è ovvia. Ma se la pronunciamo in inglese (Eleven plus two is Twelve plus one) anziché in italiano (Undici più due è Dodici più uno) ci accorgiamo, forse, che fra le lettere succede qualcosa di diverso: Eleven plus two è legato a Twelve plus one dal vincolo dell’anagramma. Si potrebbe trattare di una curiosa coincidenza e la cosa finirebbe lì. Ma se quella “doppia” equivalenza inglese fosse anche un verso di una poesia che ha
come titolo Anagrammer, e noi fossimo chiamati a tradurla, la curiosa coincidenza diventerebbe immediatamente un bel rompicapo.

La poesia di Peter Pereira, poeta americano dell’Oregon, si trova in un’antologia curata da Billy Collins intitolata 180 more. Extraordinary Poems for Every Day (Random House, 2005) e rivolta in particolare ai giovani delle scuole superiori americane. Inizia così:

If you believe in the magic of language,

then Elvis really Lives

and Princess Diana foretold  I end as car spin

Credo che a qualunque traduttore venga voglia almeno di provarci. Io ci ho provato, ma poi, quasi subito, davanti all’anagramma della principessa Diana che prevede di morire a bordo di un’auto in testa-coda mi sono arreso. Però siccome non credo che esistano traduzioni impossibili, ho scritto a Stefano Bartezzaghi. Nella traduzione, come in quasi ogni altra cosa, basta chiedere alle persone giuste. Due giorni dopo la sua immancabile risposta, con la traduzione di tutta la poesia, pubblicata in seguito integralmente sulla rivista “Hope” (n. 15, 2008, pp. 42-43). Nella lunga e sorprendente sequela di soluzioni, Bartezzaghi proponeva anche la versione italiana dell’equivalenza numerica: Tredici più otto è Diciotto più tre. Come succede spesso quando si leggono le traduzioni di frasi apparentemente impossibili si resta sorpresi della ovvietà della soluzione. È sempre così. Però il più è trovarle. Chapeau.

Qualche tempo fa mostrai la poesia di Pereira e la traduzione di Bartezzaghi a un gruppo di studenti, raccomandando loro di tenere a mente la traduzione dell’anagramma aritmetico come cosa simpatica da raccontare, come monito a non deporre mai le armi di fronte a una traduzione estrema, e comunque a pensare sempre che il fatto di non riuscire a tradurre non significa che qualcun altro non possa farlo. Una settimana dopo, al termine della lezione, una studentessa, Rexhina Dibra, con fare un po’ impacciato, quasi vergognandosi, mi disse che a casa, ripensando alla traduzione di Bartezzaghi, aveva notato che Eleven plus twoè formato da 13 lettere, e che questo numero è anche la somma di 11 e 2, mentre in italiano Tredici più otto è formato da 14 lettere e la somma è 21. Quindi, forse,  nella soluzione non venivano rispettati tutti i vincoli, intenzionali o meno che fossero. Questi sono i momenti in cui un insegnante si sente da un lato disarmato perché non sa proprio che cosa dire, dall’altro gratificato dal constatare che è riuscito a fare entrare qualche tarlo nella testa degli studenti. Nuovo consulto con Bartezzaghi, e nuova soluzione che tiene conto dei due vincoli: Il tredici sommato a otto (21 lettere) è Il diciotto sommato a tre. L’obiettivo è raggiunto con l’inclusione di un paio di zeppe (come le chiamano i poeti).

Di recente ho raccontato la complessità crescente dell’esercizio traduttivo a un incontro sulla traduzione alle Murate di Firenze. La sera a casa ho ricevuto una mail da una persona, a me sconosciuta, presente all’incontro. Con la stessa discrezione con cui la studentessa mi aveva fatto presente l’ulteriore vincolo, Silvia Rogai, una giovane e bravissima traduttrice, mi faceva notare che la soluzione con le zeppe era acuta, ma meno fluida dell’originale. Insomma, zoppicava, perdeva ritmo e immediatezza.  “Così – mi scrive – mi è venuta in mente un’altra soluzione, senza niente togliere ovviamente al grande Bartezzaghi: Quattordici più tre è Tredici più quattro. 14+3 è anagramma di 13+4 in italiano, e la loro somma è 17, come il numero di lettere che compongono la somma. Doppio chapeau.

Mi piace constatare che si è arrivati a questa soluzione brillante e semplice in un ex convento e poi ex carcere ora trasformato in luogo di incontri culturali (le Murate di Firenze). Anche perché la traduzione è monacale e si fa spesso in solitudine, ma è anche conventuale e per essenza dialogica: monastero-convento; ha a che fare con i vincoli, con i ceppi che venivano messi alle caviglie dei prigionieri (captivus è il termine latino per prigioniero), ma anche con quel rigore e quella cattiveria che, come nota Stefano Bartezzaghi, è anagramma di “creatività”.

 

P.S. Ho scritto al poeta americano Peter Pereira raccontandogli la storiella della traduzione dell’anagramma e chiedendogli se si fosse accorto della coincidenza fra il risultato della somma e il numero di lettere che compongono Eleven plus two. Come immaginavo, la sua reazione è stata di sorpresa: “I had no idea… Amazing”. A riprova forse del fatto che i testi vivono di vita propria.

 

 

©Franco Nasi

Traduzione ed empatia

Cosa ci fa esteticamente piacere in un’opera d’arte? Questa, nella filosofia dell’arte e nell’estetica, è una domanda classica. I filosofi hanno cercato di spiegare che tipo di relazione, tra i soggetti e le forme artistiche, rende comprensibile quel sentimento di rapimento e piacere che, a volte, sperimentiamo guardando una chiesa, un dipinto o una scultura.

Una delle risposte più apprezzate è stata data da filosofi e psicologi del tardo diciannovesimo secolo, quali Robert Vischer, Heinrich Wölfflin o Theodor Lipps. In breve, la loro riflessione si focalizzava sul concetto di empatia (Einfühlung) che viene descritta come un’inconscia assegnazione di una nostra personale caratteristica organica all’opera d’arte che si trova davanti a noi. Queste attribuzioni, dunque, sarebbero provate dall’osservatore che, percependo soltanto il suo proprio stato emotivo e le sue proprie facoltà fisiche, ritiene appartengano all’opera d’arte, traendo piacere da essa come se fosse piena di vita.

L’empatia fu dunque definita come la capacità di “sentirsi dentro” (Ein-fühlung) l’oggetto, di renderlo vivo mediante l’ingresso nel suo dominio fino al punto in cui la distinzione soggetto/oggetto diventa sfocata.

L’idea che possiamo sviluppare empatia con le cose, oltre che con altri esseri viventi, non è forse così strana. Noi creiamo relazioni speciali con i nostri oggetti quotidiani preferiti, che siano essi un libro, un capo d’abbigliamento o una bicicletta. Infondiamo in questi oggetti un’anima e riconosciamo in essi un valore molto più grande del suo prezzo di mercato. Diventano speciali e li trattiamo particolarmente bene. L’empatia è una questione di trasportare le nostre emozioni e sentimenti ad altre entità e di comprendere, rispettare, amare queste.

Come tutto questo viene messo in relazione con il lavoro del traduttore? Per prima cosa, non c’è alcun dubbio che l’oggetto “testo” deve essere trattato analiticamente e la stessa traduzione come un processo tecnico. Tuttavia, se il testo è visto puramente come una “cosa” inanimata, esso resterà, in un certo senso, estraneo al traduttore.

Se l’oggetto davanti a noi è un testo, possiamo guardarlo come una “cosa” inanimata e procedere a tradurlo in un’altra “cosa”. Tuttavia, la mancanza di “sentirsi dentro” il testo non permetterà al traduttore di comprenderlo nei suoi più profondi aspetti, né di provare piacere per esso come oggetto estetico. In molti casi questa capacità è interamente necessaria. Se, infatti, come afferma Walter Benjamin, c’è un linguaggio puro dietro ad ogni testo, allora questa purezza può essere provata soltanto da un movimento empatico. La vera comunicazione implica una comprensione di tutte le dimensioni del messaggio, la quale, a sua volta, include il prendersi cura del testo come fosse un essere attivo.

L’empatia è stata segnalata come una delle caratteristiche che ci differenzia dalle macchine. Questo è un altro motivo per il quale la traduzione di una macchina è diversa da quella umana. Tuttavia, questo dimostra tutto eccetto un’insormontabile crepa all’interno dei servizi di traduzione. Piuttosto, ciò evidenzia come lo sviluppo della tecnologia si fonderà asintoticamente con “l’elemento umano”. Entrambi restano necessari per raggiungere il miglior risultato possibile.

Fonte: Articolo pubblicato il 23 giugno 2014 su Multilizer Translation Blog

La traduzione e la diversità delle lingue

La parola tradurre deriva dal latinotrans” “ducere”, ossia “condurre” “al di là”. Già nel suo significato etimologico richiama un’operazione delicata e preziosa, il custodire ciò che va incontro a un cambiamento.

Lo studioso tedesco Wilhelm von Humboldt nell’opera “La diversità delle lingue“, pubblicata postuma, sosteneva che ogni lingua racchiude una particolare visione del mondo e che da quella non si può più prescindere, a maggior ragione quando ci si avvicina ad altre lingue e alle peculiari visioni della realtà che a loro volta veicolano. Non ci si spoglia della lingua materna semplicemente, come fosse un abito per indossarne uno nuovo. La lingua che apprendiamo guida il nostro sguardo su ciò che ci circonda, lo forma irreversibilmente.

Come un funambolo il traduttore fa quindi da ponte tra due mondi e nel muoversi si confronta con il rischio di cadere. Impossibile restare del tutto fedeli all’originale. A questa difficoltà oggettiva, radicata nella natura stessa delle lingue quali realtà “individuali”, complesse, autonome, se ne sovrappone un’altra soggettiva: impossibile non lasciare tracce di sé nell’opera tra-dotta.
Il poeta sa quanto profonda sia la distanza tra due termini, proprio quelli che appaiono più simili, e di questa distanza nutre la sua arte.
Come il poeta anche il traduttore si scontra ineluttabilmente con il contorno ruvido delle parole. Il lettore ne ha chiara percezione soltanto quando si imbatte in traduzioni diverse della stessa opera.

Per puro caso anni fa mi capitarono tra le mani due edizioni, lontane temporalmente e curate da traduttori differenti, della raccolta autobiografica di un autore rumeno. La prima mi folgorò alla prima lettura, spingendomi a comprare il testo ma in quella più recente, l’unica disponibile, ogni passo sembrava irriconoscibile. I ricordi descritti erano gli stessi, eppure nel confronto apparivano grigi e non risuonavano nello stesso modo. Quale delle due versioni era la più fedele? Forse la prima, suggestiva e potente? Oppure proprio la seconda si era mantenuta più vicina al testo? La traduzione è un rischio. Colui che si impegna in una simile impresa mette in gioco se stesso, la sua sensibilità e cultura. Senza questo lavoro minuzioso e invisibile nessuna opera si renderebbe accessibile a un nuovo pubblico e verrebbe meno la possibilità stessa di condividere quel patrimonio ricchissimo e stratificato nei secoli che da sempre nutre le persone al di là dei confini geografici, culturali e temporali.

Cosa significa “tradurre”

Molti pensano basti conoscere una lingua straniera o essere bilingue per poter essere un traduttore o lavorare come tale, ma chi dedica i suoi studi e la sua vita a questo mestiere sa che non è sempre così. I fattori che incidono sul lavoro di traduzione sono tanti: l’ottima conoscenza non solo linguistica ma anche culturale sia della lingua di partenza che di quella di arrivo, il fatto di dover tenere sempre presente il contesto socio-culturale di entrambe le lingue (che spesso è molto diverso), lo studio e la buona conoscenza di base dell’argomento che ci apprestiamo a tradurre (soprattutto nel caso di traduzioni più specifiche, come quelle mediche, giuridiche, scientifiche, ecc.). Il lavoro che un traduttore svolge è sicuramente un lavoro di grande responsabilità e rilevanza sociale. Grazie a lui, popoli e culture diverse hanno modo di conoscersi e scambiarsi informazioni tra loro. Basti pensare in primo luogo alla letteratura, ma anche alle opere scientifiche, ai trattati di medicina o di arte, fino ad arrivare al cinema e alla televisione. Oggi non tutti avrebbero modo di leggersi Anna Karenina, di studiare su di un manuale di medicina americano, o perché no, guardarsi l’ultima serie di Grey’s Anatomy nella propria lingua se dietro non ci fosse il lavoro di un traduttore. Eppure molti di noi lo danno per scontato.

Amo il lavoro della traduzione. Ma se dovessi etichettarlo in qualche modo, la prima cosa che mi viene in mente è una: il lavoro del traduttore è un lavoro infame. Già, perché molto spesso ci si focalizza solo sugli aspetti più positivi e nobilitanti del tradurre. Ma nella realtà, le cose sono un po’ diverse. Il lavoro del traduttore è un lavoro solitario e certosino che viene svolto nell’ombra. Si passano intere ore, giorni e notti rinchiusi in una sorta di isolamento. Il nostro unico compagno è il testo da tradurre, non sempre facile da capire e da interpretare. Con lui (e il suo autore) dobbiamo aprire un vero e proprio dialogo. E non è sempre facile.

Autore dell’articolo:
Maria Federica D’Oria
Traduttrice freelance
EN-FR>IT

Il traduttore freelance o meglio, il professionista della traduzione

traduttori freelance sono il perno su cui si basa il settore della traduzione. Si tratta di professionisti che operano quasi sempre dietro le quinte ma senza i quali il mondo dell’intermediazione linguistica non esisterebbe neppure.
A loro è dovuto il successo delle agenzie di traduzione e dei progetti dei loro clienti.
I principali criteri che determinano la professionalità di un traduttore sono:
> Padronanza della lingua di destinazione scritta
> Padronanza della lingua di partenza
> Conoscenza della cultura dei paesi dove si parlano le due lingue
> Titoli di studio
> Certificazioni da parte di enti riconosciuti
> Esperienza lavorativa nel settore della traduzione
> Esperienza lavorativa in altri settori
> Competenze specialistiche in uno o più settori
> Conoscenze informatiche generali
> Talento nel tradurre
> Velocità di esecuzione
> Affidabilità

Padronanza della lingua di destinazione scritta
I traduttori traducono normalmente verso la loro lingua d’origine. Il primissimo requisito è pertanto saper scrivere in modo corretto nella propria lingua. Un requisito apparentemente scontato ma che in realtà non lo è affatto. Conoscere alla perfezione le regole grammaticali, ortografiche e sintattiche, ed essere in grado di esprimersi con uno stile adeguato al contesto, non è cosa da tutti. È una prerogativa che si acquisisce con anni di studio teorico seguiti da una pratica costante nel corso del tempo.
È evidente che, nella scelta di un traduttore, la padronanza della lingua scritta è un fattore tanto più importante quanto più ci si avvicina alla traduzione editoriale o addirittura letteraria. Nella traduzione tecnica hanno sicuramente più peso abilità di tipo diverso, come la conoscenza specialistica di un determinato settore.

Padronanza della lingua di partenza
Molti credono che per poter essere traduttori basti parlare una seconda lingua. Non è affatto così. Avere un genitore straniero, aver lavorato o studiato per un breve periodo all’estero o aver vissuto anche a lungo in un contesto bilingue, sono fattori sicuramente positivi ma non sufficienti. La traduzione professionale richiede una conoscenza piena della lingua di partenza, non basta esprimersi in modo corretto a livello orale.
Come per la lingua di destinazione, è fondamentale che il traduttore ne conosca alla perfezione la grammatica, l’ortografia e la sintassi. Per raggiungere questo traguardo sono necessari anni di studio e di letture. Solo così si può arrivare a comprendere in tutta la loro finezza certe costruzioni linguistiche particolari come i giochi di parole, i sottintesi, le frasi fatte, le espressioni colloquiali, le metafore, i proverbi.

Conoscenza della cultura dei paesi dove si parlano le due lingue
L’aspetto culturale è fondamentale per tradurre e localizzare un documento o un sito internet in modo corretto. Una traduzione non è una semplice trasposizione di parole da una lingua ad un’altra. Talvolta in un documento sono presenti concetti che non hanno neppure un corrispondente nella lingua d’arrivo. In altri casi, concetti assolutamente normali ed accettati nella lingua di partenza possono risultare offensivi nella lingua di destinazione. Lo stesso dicasi per le immagini. Per evitare di fare errori grossolani traducendo, è importante conoscere a fondo la cultura, la mentalità e i costumi dei paesi dove vengono parlate le lingue oggetto della traduzione. È pertanto imprescindibile aver vissuto a lungo in tutti e due i paesi e continuare a mantenere un legame con entrambi con viaggi piuttosto frequenti.

Titoli di studio
La cultura generale è un altro aspetto importante da valutare nel curriculum di un traduttore. Avere competenze specialistiche in un settore è utilissimo ai fini della traduzione, ma è altrettanto importante possedere anche un valido background culturale costruito in ambito accademico.
Per essere un buon traduttore non è obbligatorio essere laureati, tuttavia, una laurea specialistica è sicuramente un ottimo biglietto da visita .
Altrettanto importanti, e forse ancor di più, sono i titoli di studio universitari e i master specifici del settore della traduzione, anche se non sempre sono dei validi indicatori circa la bravura e la competenza di un traduttore. Spesso, la pratica e il talento riescono a compensare efficacemente la mancanza di studi mirati.

Certificazioni da parte di enti accreditati
Spesso, i traduttori, dopo aver terminato il proprio percorso di studi, conseguono titoli, certificati e attestati di vario genere. Possedere tessere di associazioni di categoria (quali AITI e ANITI, ecc.), non dà molte indicazioni circa l’abilità di un traduttore, ma trasmette comunque un’immagine di serietà professionale. Lo stesso ragionamento vale per registrazioni presso camere di commercio, tribunali ed enti simili, così come per i certificati di esami sostenuti presso associazioni professionali o altre organizzazioni del settore.

Esperienza lavorativa nel settore della traduzione
Un traduttore esperto dà maggiori garanzie poiché ha imparato dagli errori fatti in passato ed è lecito ritenere che non li ripeterà di nuovo. Gli anni di carriera forniscono una chiara indicazione sulla fiducia ricevuta dal mercato in modo continuativo.
I traduttori poco capaci sono quasi sempre meteore, i traduttori in gamba continuano a svolgere questa professione nel corso del tempo, segnale inequivocabile della loro capacità di ottenere reddito e quindi della loro bravura.

Esperienza lavorativa in altri settori
Il traduttore ideale è una persona che ha maturato un’esperienza lavorativa in un settore specifico, ottenendo direttamente sul campo nozioni e competenze difficilmente acquisibili con studi prettamente teorici.
È evidente che aver lavorato a certi livelli in un determinato settore, non è una condizione sufficiente a fare di una persona un buon traduttore, ma chi ha intrapreso questo tipo di percorso, parte sicuramente avvantaggiato rispetto a chi ha lavorato unicamente come traduttore.

Competenze specialistiche in uno o più settori
Per eseguire una traduzione di elevata qualità è necessario conoscere in modo approfondito l’argomento trattato nel documento da tradurre e possedere un ottimo bagaglio terminologico nel settore corrispondente. I modi per acquisire tali competenze sono due: quello teorico e quello pratico. Studiando a fondo una materia è possibile raggiungere livelli di assoluta eccellenza. Tuttavia, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, nei settori che richiedono una preparazione tecnica specifica, l’esperienza acquisita sul campo è la migliore possibile.

Conoscenze informatiche generali
Al giorno d’oggi l’informatica è fondamentale in qualsiasi settore. Anche il campo della traduzione non fa eccezione: è impensabile operare in questo settore senza gli adeguati supporti tecnologici. Per questo motivo, è richiesta la perfetta conoscenza dei principali programmi di videoscrittura, dei fogli elettronici, dei programmi di presentazione, dei database, nonché grande dimestichezza nell’utilizzo dello strumento internet.

Talento nel tradurre
Il talento non è qualcosa che si può acquisire con il tempo né tanto meno lo si può apprendere sui banchi di scuola. È una dote innata che semplicemente si ha o non si ha.
Chi è provvisto di talento lo può affinare nel corso del tempo con lo studio e con il lavoro. Al contrario, chi non ce l’ha, difficilmente potrà diventare un traduttore di successo.

Velocità di esecuzione
In un mondo che viaggia a mille all’ora, non è raro che ci vengano richieste traduzioni urgenti o urgentissime. In questi casi, per venire incontro alle esigenze dei clienti, è necessaria grande rapidità d’azione nell’organizzare il progetto da parte dell’agenzia e grande velocità nell’eseguire il lavoro da parte dei traduttori. Naturalmente, chiunque è consapevole che, riducendo i tempi standard di lavorazione, la qualità del prodotto finale si abbassa. Tuttavia, il traduttore deve fare in modo che, pur abbassandosi, rimanga comunque a un livello elevato. Per questo motivo, un’altro dei fattori che viene preso in considerazione dalle agenzie di traduzione è il mix fra rapidità di esecuzione e qualità di traduzione.

Affidabilità
L’affidabilità è sinonimo di serietà, di passione per il proprio lavoro, di puntualità nelle consegne, di qualità di traduzione, di disponibilità e flessibilità.
Un traduttore affidabile è un professionista che possiede tutte queste prerogative e non tradisce mai.
Per ovvi motivi, l’affidabilità è un parametro impossibile da valutare nel breve periodo, la si costruisce gradualmente nel tempo, traduzione dopo traduzione.

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Gli errori che si fanno traducendo da una lingua all’altra

Mi permetto di riportare nel mio blog un articolo firmato da GIAN LUIGI BECCARIA e pubblicato sulla Stampa che offre tanti punti di riflessione sia al traduttore che non traduttore.

Mundane non è mondano

Traducendo da una lingua all’altra si fanno spesso degli errori per via dei cosiddetti «falsi amici», parole che si assomigliano, che hanno una stessa radice, ma vogliono dire cose diverse: lo spagnolo equipaje è il bagaglio e non un equipaggio, l’ingl. dialect non è il «dialetto», ma va tradotto con «varietà (linguistica)», così come il nostro «dialetto» non va tradotto con l’ingl. dialect, ma con vernacular. A chi tocca vivere per un po’ di tempo all’estero capita spesso di osservare queste false corrispondenze. Ricordo l’esempio di Luigi Meneghello quando nel suo libro Il dispatrio (Milano, Rizzoli 1993) citava l’aggettivo inglese mundane, che «non vuol dire “del mondo”, o “mondano” o “alla moda [del mondo]“, ma “ordinario”, “banale [come il mondo]“. Suppone una distinzione tra le cose rare, celesti, e quelle comunali, terra-terra».

Corrispondenza da una lingua all’altra di solito non hanno le locuzioni idiomatiche, quei modi di dire che vivacizzano e colorano le lingue, e sono anche difficili da apprendere. Ci può essere corrispondenza tra una lingua e l’altra, ma di solito ci sono constatiamo variazioni vistose. Noi diciamo «piove a catinelle» e gli inglesi «piove gatti e cani». E «cadere dalla padella alla brace» in romeno è «cadere dal lago nel pozzo», il nostro «avere grilli per il capo» è «avere calabroni in capo», «cavare il sangue da una rapa» è «cavare acqua dalla pietra secca», mentre «prendere due piccioni con una fava» è, ancora in romeno, «prendere due lepri con un colpo (di fucile)».

Ci sono poi i modi di dire appartenenti all’italiano colloquiale-basso, di origine dialettale-regionale, che non sono traducibili alla lettera in altra lingua: andare in vacca «impigrirsi» o «andare a male» e simili, viene dalla bachicoltura, dove le vacche sono quei bachi da seta che non arrivano a fare il bozzolo, perché si ammalano, si afflosciano, marciscono. Non trovi il corrispondente naturalmente in altre lingue.

La spiegazione dei modi di dire è quasi sempre un rompicapo. Se dico facciamoci una croce, nel senso di «non pensiamoci, non occupiamocene più», si potrebbe pensare alla croce che, per concludere un affare, per risolvere una questione, apponeva su un atto notarile chi non sapeva scrivere. Ma il significato dell’espressione è anche «lasciare per sempre una cosa, abbandonarla, promettere che non la si farà più, non volerne più sapere». Quindi potrebbe benissimo evocare il segno della croce che cancella, che annulla, o magari al gesto della croce cristiana quale segno della morte. Chissà!

(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 10 settembre)

Aprire un’azienda in Romania

Prima di aprire una società in Romania, bisogna conoscere alcune cose:

  • Gli stranieri, per fare affari in Romania, possono solamente partecipare al capitale di società, quindi niente Ditte Individuali (qui si chiamano Persone Fisiche Autorizzate).
  • Lo straniero, sia esso persona fisica che giuridica, può detenere anche tutto il capitale della società romena, non esiste l’obbligo di avere soci romeni.
  • Considerato che le SA (Società per Azioni) si fanno solo per le ex industrie di stato e portano a certe complicazioni, parleremo della costituzione di una SRL (Società a Responsabilità Limitata), abbastanza simili alle nostre.
  • In Romania, i cittadini dell’Unione Europea entrano e fanno affari con la Carta d’Identità, documento emesso da uno stato membro e riconosciuto dal Governo Romeno. Diffidate di chi insiste con il Passaporto.

Fase di start-up:

  • Scelta della sede:
    Secondo la legge romena, la sede della società deve essere in un’unità abitativa. Per unità abitativa si intende un appartamento/ufficio/spazio commerciale con un indirizzo univoco. In quell’unità non potranno poi esserci più di una società, a meno che le società che risiedono in una stessa locazione non abbiano almeno un socio in comune. Questo esclude la domiciliazione presso lo studio del commercialista. Esiste un’unica eccezzione a questa legge: durante i primo 12 mesi di vita della società, questa potrà avere sede presso lo studio di un avvocato che operi in Romania.
    Consiglio quindi di fare attenzione a chiunque vi proponga una formula con la domiciliazione compresa: si tratta sempre di un subaffitto di un appartamento, spesso situato in zone poco agibili (per abbassare i costi)
    Scelta e prenotazione della denominazione:
  • Non si tratta sempre di una semplice formalità: il nome della società deve essere univoco (almeno in ogni judet, o provincia), per cui spesso è difficile trovare un nome non ancora registrato. L’ufficio della Camera di Commercio fornisce, comunque, l’elenco dei nomi che possono essere messi dopo quello prescelto, per renderlo unico (com, impex, prod, etc…).


    Importante: la denominazione seguita dalla parola “Romania” può essere adottata solo da quelle aziende straniere che aprono una filiale in Romania. Una volta preparata una lista di almeno tre denominazioni, ci si reca alla Camera di Commercio (o anche all’Ufficio del Registro del Commercio), dove si effettua la prenotazione del nome. Sarà infatti con questo nome, e con l’attestazione dell’avvenuta prenotazione, che si intitoleranno tutti gli atti (Atto Costitutivo, Contratto di affitto per la domiciliazione, conti bancari etc…). La prenotazione dura 60 giorni, tempo più che sufficiente ad aprire la società.


  • Analisi dei codici di attività:
    La legislazione romena impone la definizione, nell’Atto di Costituzione, dell’attività principale e di quelle secondarie.
    E’ molto importante definire quella principale, soprattutto per quelli che saranno i rapporti con le banche: avere un codice di attività principale “Agenzia immobiliare”, per esempio, significa essere visti dalle banche come provvisori ed inaffidabile. Per un istituto di credito, poi, il cambio del codice principale equivale alla costituzione di una nuova società.
    Molto importante, poi, la scelta dei codici da parte di chi intende chiedere finanziamenti agevolati dai Fondi Strutturali Europei: prima di decidere, sarà, in questo caso, meglio leggere la normativa sui Fondi che si desidera chiedere.
    Tutte le attività che sono possibili svolgere legalmente in Romania, sono codificate da una normativa governativa denominata CAEN. E’ abbastanza facile trovare l’elenco dei codici CAEN su internet, a patto di conoscere il romeno altrimenti, si può consultare ATECO i cui codici corrispondono a quelli romeni in quanto paesi della CEE.
    I codici d’attività secondari, invece, sono liberi: praticamente si cerca di metterli tutti, esclusi quelli riservati alla pubblica amministrazione o che necessitano di autorizzazione (banche, assicurazioni, istituti di vigilanza, scuole…)
  • L’Atto Costitutivo
    L’Atto Costitutivo, come per le società italiane, è quell’atto con cui si costituisce materialmente la compagnia, definendone gli scopi, i soci e le modalità d’amministrazione.


    Attenzione!: con poche eccezioni, l’attuale normativa consente di autentificare l’Atto Costitutivo di società tra persone presso un avvocato che ne certifichi la data. Diffidate pertanto di chi vi porta da un notaio senza un motivo reale.

    Per chi non ha dimestichezza con la lingua, l’Atto Costitutivo può essere tradotto in lingua romena da un traduttore autorizzato e asseverato (giurato) al Tribunale di zona .

    Attenzione!: alcuni consulenti, notai ed avvocati operanti in Romania, ancora non si sono aggiornati alla normativa entrata in vigore con l’adesione alla Comunità Europea, per cui chiedono ancora il Casellario penale italiano; in realtà è sufficiente una dichiarazione, sotto propria responsabilità, resa e firmata al momento della stipula dell’Atto Costitutivo, che attesti che non siate stati condannati per reati penali che portino all’interdizione dall’effettuare attività commerciali.


    Sia che abbiate scelto la strada dell’avvocato che quella del notaio, se non avete un documento che attesti che conoscete la lingua romena (ma spesso basta parlare correttamente con il notaio, per attestare la vostra padronanza della lingua), tutti gli atti che firmerete dovranno essere in due copie: una in italiano ed una in romeno, preparate da un traduttore autorizzato, che apporrà il proprio timbro.

  • Il contratto d’affitto:
    Per chi non ha la fortuna di potersi comperare un appartamento, l’unica soluzione per domiciliare una società, è quella di affittarne uno.


    Attenzione!: Una volta scelta la zona e la tipologia che più si adattano alle vostre tasche, il primo passo da fare sarà quello di verificare, all’amministrazione finanziaria, che non esista già una società registrata a quell’indirizzo. Siccome in Romania è molto più conveniente “lasciar morire” un’azienda piuttosto che adempiere alle costose formalità di liquidazione, spesso le società che non vanno bene vengono “abbandonate”: si smette di trasmettere la dichiarazione annuale dei redditi al Registro del Commercio e, dopo un paio d’anni, un giudice dichiarerà la società liquidata. Ma nel caso in cui tale società avesse un debito, anche piccolo, con la pubblica amministrazione, allora la cancellazione rimarrebbe in sospeso.


    Visto che non penso che qualcuno sia interessato a sborsare tre mesi di anticipo ed uno di garanzia per poi dover rincorrere amministratori e fare la spola agli sportelli pubblici, conviene sincerarci in anticipo che l’appartamento sia libero da questo tipo di problema.


    Attenzione!: per poter registrare presso il Registro del Commercio la vostra sede, se questa si trova in un condominio, dovrete ottenere l’approvazione scritta sia dell’Associazione dei Proprietari (di cui parlerò più avanti), sia dei vostri futuri vicini, ossia degli occupanti degli appartamenti sopra, sotto, a destra ed a sinistra del vostro.


    Stipulato il contratto d’affitto, bisogna andare all’Ufficio dell’Amministrazione Finanziaria del settore cui appartiene la sede (Bucarest, per esempio, è suddivisa in sei settori, disposti a spicchio, ognuno con il proprio ufficio), insieme al proprietario, pagare una piccola tassa e registrare l’atto.

  • Il Capitale Sociale:
    Il capitale sociale minimo per aprire una Srl in Romania è di 200 Ron (al cambio medio, circa 60 Euro).

    Attenzione!: molti consulenti spingono, senza nessun interesse da parte loro, a sottoscrivere capitali superiori al minimo. Questo può avere un senso se l’azienda si deve garantire nei confronti dei fornitori o delle banche ma, in questo caso, il capitale deve essere di una certa importanza: non vedo differenza, verso una banca, tra un capitale di 60 euro ed uno di 200…

    Il capitale sociale va versato, prima della costituzione della società, in un conto aperto al nome che abbiamo riservato al Registro del Commercio, presso una qualsiasi banca romena. In generale, per usanza, si apre presso il CEC (la banca di stato romena), banca che poi vi darà un sacco di grattacapi burocratici. Il conto può essere di solo deposito del capitale sociale oppure misto, deposito/corrente.
    In ogni caso, chi lo desiderasse potrà ritirare i soldi versati in conto capitale sociale, dopo 60 giorni dalla costituzione della società.
  • Il Registro del Commercio:
    A questo punto, avrete pronti tutti i documenti: l’Atto Costitutivo, le fotocopie dei Documenti d’Identità dei soci, il Contratto d’Affitto della sede, la prenotazione dellaDenominazione dell’azienda e la ricevuta di versamento del Capitale Sociale.
    Con tutti questi documenti, vi dovrete recare all’Ufficio del Registro del Commercio del vostro Judet o Settore. Qui, vi farete consegnare il modulo per l’immatricolazione di una nuova società e lo compilerete. Fatto questo, vi metterete in coda ad uno dei tanti uffici che si occupano delle nuove società: qui un impiegato molto disponibile vi aiuterà nelle formalità e vi manderà a versare alla cassa centrale le tasse d’immatricolazione, qualche decina di euro.

  • Ritiro degli atti:
    A questo punto, alla data indicata da’ufficio, non vi resta che ritirare il vostro Certificato d’Immatricolazione, da conservare attentamente poiché lo dovrete esibire spesso.Con il certificato, la prima cosa che farete sarà quella di recarvi in un negozio specializzato dove vi farete fare tre timbri: uno grande per l’ufficio, uno portatile per voi ed uno con scritto “contabilitate” per permettere a chi vi tiene la contabilità di presentare gli atti alla pubblica amministrazione).

    Bisogna infatti sapere che, in Romania, il timbro è più importante della firma. Senza timbro i documenti (siano anche solo lettere) non hanno effetto giuridico e, soprattutto in banca, vi verrà chiesto in ogni occasione.

    Questa comunque non vuole essere una guida “fai da te” per aprire da soli una società in Romania. Per farlo, infatti, sono necessarie conoscenze, linguistiche, legali e degli usi e costumi romeni che solo chi lavora in Romania da anni possiede.
    Se volete aprire una società in questo paese senza avere sorprese, il consiglio è quello di rivolgersi a dei professionisti di provata capacità.
    L’Associazione Imprenditori Italiani in Romania (AIIR) ha, come scopo statutario principale, quello di aiutare, appunto, chi si avvicina a questo mercato a scegliere i professionisti più adatti alle proprie esigenze.
    Per prendere contatto con l’Associazione, visitate il sito www.aiir.ro
    pulsante_prevtraduzioni

Regole per la buona traduzione

Introduzione

Lo scopo di questo documento è quello di delineare un insieme di linee guida alle quali cercare di attenersi quando si traduce un documento tecnico, un HOWTO, delle pagine di manuale o i messaggi di un programma, in seguito all’impegno di molti volontari in anni di traduzioni e revisioni sulle liste dei traduttori.

Ovviamente i destinatari principali di questo documento sono i novelli traduttori che si cimentano per le prime volte con le traduzioni di documenti tecnici, ma può anche servire per stabilire una base comune di regole su cui i traduttori più esperti possano fare affidamento.

È da tenere ben presente che queste regole non sono una verità rivelata, ma sono il frutto di discussioni avvenute negli anni e, pertanto, non pretendono di essere considerate assolute. Piuttosto, la validità di una traduzione non deve essere una condizione binaria, bensì un continuo di sfumature che attraversano l’intero spettro di verità.

La forma

  • Termini stranieri

    I termini stranieri vanno sempre lasciati nella loro forma pura, priva di flessione. Non debbono venire coniugati neppure al plurale, restando sempre nella loro forma singolare: questo è per evitare problemi con vocaboli dotati di plurale irregolare (“mouse” – “mice”) o con lingue poco conosciute (“kamikaze”, “pasdaran”, ecc.).

    Lo stesso trattamento va riservato per le forme terminanti in -ing, in cui va lasciato solo l’infinito del verbo.

    es. “Eseguire il link” invece che “Eseguire il linking”.

    Per quanto riguarda il genere, il termine assume quello che avrebbe se tradotto in italiano oppure quello che suona meglio dandogli un significato italiano. In caso di dubbio è consigliabile rifarsi all’uso comune (sempre che ne esista uno).

    es. “Ho comprato due mouse”, “Mandami i tuoi file”.

Rivolgersi all’utente

Mentre i testi inglesi usano solitamente rivolgersi direttamente al lettore, in italiano è una cosa da evitare in ogni modo, essendo preferibile usare forme impersonali per esprimere gli stessi concetti. Detto ciò, è anche necessario limitare l’uso del “si” impersonale, il quale tende a rendere le frasi pesanti e poco scorrevoli, privilegiando l’uso dell’infinito.

Esclamative e interrogative

Domande retoriche, frasi esclamative o interrogative e forme colloquiali sono da evitare, cercando di usare al loro posto una forma affermativa impersonale, che conferisce al programma un tono più professionale o, perlomeno, distaccato.

  • Traduzione letterale

    Compito del traduttore è di cercare di rimanere il più possibile fedele all’originale: questo non significa necessariamente tradurre letteralmente, bensì cercare di rendere perfettamente quanto esposto del documento originale. Più la traduzione è vicina all’originale, tanto questa è migliore, ma tale vicinanza non deve verificarsi a scapito della forma o della correttezza: a causa del diverso modo di costruire le frasi nelle varie lingue, spesso è da considerare migliore una traduzione che si distacca dall’originale ma è più scorrevole o più elegante.

  • Tradurre, non spiegare

    Questa è una massima valida per tutte le traduzioni tecniche. Una traduzione deve cercare di rendere esattamente ciò che è espresso dall’originale, senza sforzarsi di renderlo più chiaro o meno ambiguo, a meno di errori nell’originale che vanno corretti e segnalati agli autori.

    Ciò non vuol dire che le traduzioni debbano essere necessariamente letterali (anche se questo può essere comunque considerato un pregio): semplicemente non è compito del traduttore fare precisazioni su un testo ambiguo.

    Talvolta ciò può accadere in modo inevitabile per diversità della lingua: ad esempio il termine “free software” in italiano diviene “software libero”. Con una tale traduzione, tuttavia, diviene pressoché impossibile tradurre anche la precisazione che spesso viene fatta tra gli anglofoni: “free as in speech, not as free beer”.

    È per evitare casi come questi che il lavoro del traduttore non comprende la chiarificazione di un testo poco chiaro nella sua forma originale: in tali casi il comportamento migliore sarebbe quello di contattare l’autore originale e far presente che il testo contiene delle parti dubbie, sollecitandolo a chiarirle.

  • Traduzione di termini tecnici

    • Tradurre, non spiegare

      Anche per i singoli termini vale questa regola: bisogna guardarsi dal precisare più di quanto il termine stesso dica, onde evitare spiacevoli malintesi. Anche per questo una traduzione deve essere succinta, onde evitare di implicare più di quanto non sia necessario.

    • Non sorprendere gli utenti esperti

      Quando si trova davanti alla traduzione di un termine, un utente esperto deve trovarla naturale e deve poter risalire subito al termine originale.

      I tecnici generalmente conoscono il termine originale, pertanto la traduzione non deve essere fuorviante o più difficile da leggere di quest’ultimo, altrimenti è meglio lasciare il termine invariato.

      È da evitare soprattutto l’introduzione di termini arbitrari, in quanto questi rischiano di essere diversi da un testo all’altro, confondendo il lettore.

    • Corrispondenza 1:1

      Una traduzione tecnica deve essere l’unica traduzione possibile di un termine, in quanto il suo significato è talmente preciso e ben delimitato che chi la legge si aspetta di trovarla sempre uguale, come sempre uguale è il concetto che essa esprime.

      Oltre ad essere l’unica traduzione possibile di un termine, la buona traduzione traduce solo quel termine e non può essere confusa con null’altro, in modo che il termine originale e quello tradotto siano perfettamente equivalenti.

    • Autosufficienza

      Una buona traduzione non deve richiedere spiegazioni poste tra parentesi o di giri di parole per poter essere utilizzata; deve, anzi, fare in modo che non sia affatto necessario rigirare la frase originale.

    • Riconoscibilità

      Una buona traduzione deve essere riconoscibile da un tecnico in quanto la parola tradotta (in ordine di importanza):

      1. è comunemente usata dai tecnici del settore;
      2. traduce l’originale in maniera semanticamente fedele;
      3. traduce l’originale in maniera letteralmente fedele;
      4. assomiglia all’originale.

     

    • Eleganza

      Per essere una buona traduzione, la traduzione deve essere elegante in italiano: molte traduzioni per altri motivi molto valide sono pressoché inutilizzabili a causa della loro bruttezza e goffaggine.

    • Coerenza

      Effettuando una traduzione bisogna sforzarsi di restare omogenei con le traduzioni già fatte, in quanto traduzioni non coerenti tra loro diventano facilmente fonte di confusione per l’utente.

    Traduzione tecnica, fedele ma non passiva

    di Roberto Crivello

     L’intervista a Roberto Crivello Tradurre documenti tecnici dall’inglese è sempre tra le pagine più cliccate di questo sito. E non mi stupisce: per chi scrive per lavoro, l’inglese è ormai una seconda lingua, quella in cui si legge quasi tutto – dai siti internet ai quotidiani – e, sempre più spesso, quella da cui si traduce o da cui si adattano testi che ci servono nel nostro lavoro di ogni giorno. E sempre più spesso capita che in inglese si debba scrivere direttamente, per esempio sul sito internet della nostra azienda. 
    Per chi, come me, lavora in un’azienda di informatica o di tecnologie, l’inglese diventa la vera lingua “di servizio” (quelle “del cuore” sono altre). 
    Ma non è facile muoversi con dimestichezza tra tante parole straniere, che spesso usiamo pigramente, scimmiottando gli altri, senza chiederci se possiamo usarle o se non sarebbe meglio sforzarci di tradurle in italiano. I risultati della nostra ignoranza e pigrizia spesso sono testi goffi, o esilaranti, o semplicemente ridicoli. E in ambito tecnico possono essere testi pieni di errori. 
    Roberto Crivello torna sulle traduzioni tecniche in un lungo e interessante articolo sulla newsletter
    Tradurre.
    Col suo permesso, ne riproduco alcuni estratti che possono essere utili ai lettori di questo sito. (luisa carrada)


    Una delle insidie da cui deve guardarsi il traduttore tecnico è il lento assorbimento del lessico e dei sintagmi della lingua di partenza. Si verifica spesso che calchi o prestiti semantici e sintattici si cristallizzino in moduli “pronti all’uso”, causando un impoverimento nelle scelte terminologiche o stilistiche e tendendo a standardizzare, e in ultima analisi a erodere, la qualità della traduzione. Questo problema, indipendente dal paese in cui vive il traduttore, è contrastabile solo con un uso sorvegliato della lingua. Vediamo alcuni esempi.

    1. Nella traduzione di rimandi, spesso il modulo inglese refer to viene tradotto con fare riferimento a (p. es., refer to Chapter 7 tradotto con fare riferimento al capitolo 7 anziché vedi capitolo 7 o, secondo i casi, vedere o si veda il capitolo 7).
    Si tende così a usare fare riferimento a, anche quando il contesto richiederebbe di scrivere consultare il manuale, vedere il disegno allegato, vedi figura, leggere la sezione, e così via. 
    Una mancanza analoga di flessibilità si verifica quando si traduce refer to con il verbo consultare, scrivendo magari consultare la sezione quando quest’ultima consiste in appena dieci righe di testo, con un involontario effetto ironico che non sfugge al lettore attento.

    2. Traducendo documenti tecnici si incontrano spesso rimandi a liste. 
    In inglese si parla di numbered list (lista numerata) e unnumbered list (lista non numerata). Quest’ultimo termine, che spesso è una bulleted list, ossia un elenco in cui si adoperano pallini, in italiano viene reso anche con lista puntata.
    L’estensione del significato di puntare da “segnare con uno o più punti” a “segnare con uno o più simboli” – in quanto i contrassegni delle voci della lista possono essere pallini, trattini, quadratini, ecc. – è apprezzabile per la sinteticità ottenuta. 
    Il problema nasce nel momento in cui il termine lista puntata si cristallizza in un modulo che si ritiene di dover adoperare sempre, come se fosse l’unica traduzione accettabile di bulleted list. Mentre è corretto scrivere lista puntata in un manuale sulla creazione di pagine web in cui si spiegano vari modi con cui mettere in risalto le voci di un elenco, il termine è ridondante nella guida all’uso di un prodotto nella quale lista è un semplice rimando. Per esempio, traducendo la frase For instructions, refer to the bulleted list on page 8, si guadagnerà in snellezza scrivendo Seguire le istruzioni della lista a pagina 8 (se in quella pagina c’è una sola lista e quindi non sono possibili equivoci) o anche soltanto, se il contesto lo permette, Seguire la procedura a pagina 8.
    Riepilogando, in genere è corretto seguire letteralmente l’inglese quando il termine e il suo contesto hanno uno scopo didattico o esemplificativo, mentre si può guadagnare in rapidità usando un termine più breve o alternativo quando esso serve solo da riferimento.

    3. L’automatismo nell’impiego di certi vocaboli inglesi o dei calchi o prestiti corrispondenti risulta spesso da acquiescenza nei confronti del testo originale, derivante soprattutto da un’analisi mancata o incompleta.
    Nei testi di marketing si legge spesso seamless integration (di prodotti o servizi); questa espressione fa parte di una serie di cliché, come state-of-the-art, on the leading edge, user friendly: termini che hanno perso qualunque significato a causa dell’utilizzazione diffusissima e acritica fattane dai pubblicitari.
    Fra le traduzioni di seamless integration che ho incontrato, riporto integrazione senza soluzione di continuità e perfetta integrazione (non sorprendentemente, si trova scritto anche integrazione seamless).
    Basta un attimo di riflessione per rendersi conto che l’espressione inglese – e quindi le corrispondenti italiane che si modellano su di essa – soffre di un problema di ridondanza: sia l’inglese integration che l’italiano integrazione implicano già i concetti di “fusione armoniosa tra più parti di un sistema” o “completamento mediante l’aggiunta di opportuni elementi complementari”.
    Invece potrebbe essere utile o necessario specificare che attuare un’integrazione può essere, per esempio, più o meno rapido, più o meno agevole. Ma spesso si ritiene che poiché seamless compare nell’espressione inglese, l’aggettivo debba essere tradotto a tutti i costi con perfetto, uniforme, ininterrotto o altre parole reperibili nei dizionari bilingue, ossia termini teoricamente corretti ma avulsi dal contesto; ne consegue, sia pure inconsapevolmente, un luogo comune. 

    La cristallizzazione del modulo inglese e la sua riproduzione passiva nella traduzione conducono quindi a un’analoga cristallizzazione di moduli corrispondenti italiani, che potrebbe essere evitata con espressioni alternative che hanno il pregio dell’originalità o almeno della mancanza di banalità.